Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

martedì 17 marzo 2015

Lorenza Boisi

Lorenza Boisi, Self Portrait Posing as a Sculpture, 2014
olio su tela, 120 x 100 cm
courtesy l'artista

Pittrice d’incertezze e possibilità: così si definisce Lorenza Boisi in un’intervista rilasciata alla rivista FlashArt un paio di anni fa. Sebbene non si occupi programmaticamente di tematiche sociopolitiche o di critica dell'attualità, ma abbia «sempre lavorato per rendere tangibile, condivisibile, un universo interiore», l’artista milanese entra, più o meno consapevolmente, in profonda risonanza con il suo e il nostro tempo.

La fluidità che connota le sue tele sembra interpretare perfettamente quest’epoca della società liquida che, da metafora sociologica, quasi un calembour intellettuale, è diventata chiave di lettura generazionale dell’esistenza nel capitalismo avanzato e ormai un mantra di massa. Boisi rappresenta spesso oggetti investiti da onde o emananti vibrazioni, poggiati o immersi in fondamenti liquefatti, esseri o cose dalle tinte palustri quasi fossero garbati e discreti abitanti di un acquario. E così, parlando del proprio universo interiore, ci parla a ben vedere della nostra realtà, riflettendola e donandole un’espressione “atmosferica” molto più significativa che non il diluvio social-realista o il pop di maniera.


Ma come sa chiunque abbia osservato gli effetti di un sasso gettato in acque chete, la fluidità è spesso accompagnata da un offuscamento, dalla scomparsa dei profili (soprattutto concettuali) delle cose. Forse anche ricordando le presunte cataratte di cui avrebbe sofferto Monet durante l’esecuzione delle celebri Ninfee, l’artista milanese dice di sé: «Ho sempre creduto che la mia vera fortuna artistica risiedesse nella sfortuna congenita di una vista pessima e una scarsa attitudine naturale al disegno».

Anche nell’autoritratto in copertina ha tracciato pennellate rapide, con urgenza e, parrebbe, quasi alla rinfusa. Continui cambi direzionali e la mancanza di marcate linee di contorno infondono all’immagine un forte dinamismo e una sensazione di precarietà: sembra che il colore sia stato posato solo incidentalmente sulla tela, senza rivendicare certezza alcuna. La scelta dei colori, tranne alcune eccezioni, è improntata a un’uniformità quasi dimessa: grigi, grigioazzurrognoli, grigio-violetti. Il corpo dell’artista, fulcro della composizione, emerge dallo sfondo senza contrasto e anzi si amalgama all’ambiente circostante, assumendo sulla propria pelle le tonalità fredde prevalenti nel quadro. Residui espressionistici e fauve emergono dal cromatismo irreale e dall’apparente caoticità delle pennellate, in equilibrio tra forza creatrice e distruttrice. Tutto è liquido, come si diceva poc’anzi, le forme sembrano nascere le une dalle altre senza soluzione di continuità, spontaneamente: mancano veri e propri vuoti, perché anche nelle campiture prive di figure un’aria densa, vischiosa, carica di striature e mulinelli, collega gli oggetti tra loro in un unicum organico e inscindibile.

La scena, come abbiamo accennato in precedenza, sembra immersa in un ambiente sottomarino, nel quale sparsi dettagli focalizzano lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, e da soli bastano a creare un abbozzo di narrazione. Squillano i rari rossi, gialli e smeraldini: delle unghie e delle labbra truccate, dei frutti succosi sul vassoio, dei vasi e delle losanghe per terra. Con la ripetizione parossistica della medesima forma, la pavimentazione multicolore, quasi un omaggio all’astrattismo geometrico, si stacca dal resto del dipinto, poiché concentra in pochi centimetri di tela un’idea di ordine a esso estranea.

Al contrario echi di primitivismo sono evidenti, oltre che nelle grosse foglie delle piante (che, non fosse per i vasi, sembrerebbero selvagge anziché domestiche), soprattuto nella goffaggine del corpo femminile nella posa di una scultura arcaica: gambe forti sorrette da piedi grandi, saldamente piantati per terra, mancanza quasi totale di curve e di attributi sessuali. Qui la trama di pennellate vigorose come schegge non levigate mostra un corpo che sembra scolpito rozzamente nel legno piuttosto che dipinto. I capelli, come una massa scura e folta, ricadono sciolti e pesanti, conferendo un’aria selvatica alla figura ritratta e fungono forse da specchio proiettivo dell’artista. L’unico occhio visibile sul volto per metà coperto da un impasto di pennellate violacee è rivolto verso il basso in un’atteggiamento di serena contemplazione o magari, in parte, di deferenza, se associato al gesto ostensivo delle mani. Bastano pochi tratti a rievocare un milieu esotico di cui Gauguin fu maestro.

Ma questi frammenti di “paradiso tropicale” sono sottilmente e inevitabilmente compenetrati da un senso di smarrimento e inadeguatezza: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Eugenio Montale).

***testo pubblicato in GIDM num. 1, vol. 35, marzo 2015***